Poi giunsero a Gerico. E come Gesù usciva da Gerico con i suoi discepoli e con una gran folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, cieco mendicante, sedeva presso la strada. Udito che chi passava era Gesù il Nazareno, si mise a gridare e a dire: "Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!" E molti lo sgridavano perché tacesse, ma quello gridava più forte: "Figlio di Davide, abbi pietà di me!"
Gesù, fermatosi, disse: "Chiamatelo!" E chiamarono il cieco, dicendogli: "Coraggio, alzati! Egli ti chiama". Allora il cieco, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. E Gesù, rivolgendosi a lui, gli disse: "Che cosa vuoi che ti faccia?" Il cieco gli rispose: "Rabbunì, che io ricuperi la vista".
Gesù gli disse: "Va', la tua fede ti ha salvato". In quell'istante egli ricuperò la vista e seguiva Gesù per la via.
[Mc. 10, 46-52]
La prosa è scarna, quasi elementare, ed il contesto tratteggiato soltanto a grandi linee. Ma questi sono punti di forza, non di debolezza: il testo riporta solo ed esclusivamente gli elementi essenziali a cogliere il succo della vicenda, e la modalità espressiva semplice evita che l’attenzione del lettore si concentri su inutili fronzoli stilistici.
La scena si svolge ai tempi di Cristo, ma potrebbe essere benissimo ambientata nei sobborghi di una delle nostre città, popolate da moltitudini di sfortunati, che spesso richiamano l’attenzione dei passanti con urla, che per alcuni sono fonte di grande irritazione.
Ad una prima lettura è facile incorrere nell’errore di accontentarsi della mera esposizione dei fatti: potremmo limitarci ad apprendere che due millenni fa, il Figlio di Dio si fece uomo e, con grande umiltà e compassione, portò il proprio amore e la propria benedizione ai reietti della società. Potremmo incamerare questa nozione ed al limite interrogarci circa il nostro atteggiamento nei confronti dei tanti sfortunati a noi contemporanei: avremmo già ottenuto un buon risultato. Ma gli autori dei Vangeli non hanno scritto questo passo soltanto per indurre i lettori a mantenere un atteggiamento più comprensivo verso le persone più disagiate.
C’è un particolare, un piccolo dettaglio che fornisce la primissima indicazione su quale potesse essere il loro scopo principale: il cieco guarito ha un nome, si chiama Bartimeo. Che strano: tanti altri miracolati fanno la loro comparsa nel Vangelo, per un attimo, poi spariscono per sempre, e di nessuno di loro si conosce il nome. Si potrebbe essere indotti a pensare che Bartimeo sia in qualche modo più importante, o che goda di qualche privilegio particolare, ma così non è: come gli altri miracolati, quest’uomo compare di fronte a Gesù, espone al Signore i propri problemi, e non appena questi lo guarisce esce rapidamente di scena. Non ricomparirà più.
Come mai Bartimeo viene ricordato ancora oggi, dopo 2.000 anni? In effetti il Vangelo non si accontenta di riferire il nome di quest’uomo, ma ci informa esplicitamente su chi fosse suo padre: un tale di nome Timeo. Sicuramente è curioso il fatto che Timeo, in latino, significhi “Io temo”, “Io ho paura”: una espressione che ricorda, nel senso che ne sembra l’opposto, il potentissimo “Io sono” pronunciato da Gesù, che atterrisce le guardie dei Farisei mandate a catturarlo la sera del suo arresto:
Appena Gesù ebbe detto loro: “Io sono”, indietreggiarono e caddero in terra.
[Gv. 18, 6]
Se la frase “Io sono” è la manifestazione più compiuta e totale del sé, l’espressione “io temo” è la negazione stessa di tale manifestazione: la tendenza a non fare e a non essere, per paura delle conseguenze.
Anche la modalità di presentazione dei personaggi è particolare: innanzitutto perché la citazione del nome del padre di Timeo potrebbe apparire pleonastica, dal momento che in aramaico, il prefisso Bar- significa “figlio di”, dunque Bartimeo significa già “figlio di Timeo”; in secondo luogo perché nella frase “il figlio di Timeo, Bartimeo, cieco mendicante”, i nomi del padre e del figlio sono citati uno di seguito all’altro, separati solo da una virgola. Le due figure, così affiancate, tendono a sovrapporsi nella mente del lettore, a diventare inscindibili. Ad entrambi sembra essere riferita l’impietosa definizione di “cieco mendicante”, quasi come se la menomazione fisica, o la condizione di indigenza si fossero trasmesse per via ereditaria.
Entrambi sono costretti a portare il peso di un nome che significa paura: una paura che traspare anche dalla loro stessa esistenza, e che sembra pervadere tutto il loro essere. Forse è paura delle persone, o del proprio futuro, o forse è la paura di essere abbandonati o giudicati: non c’è modo di saperlo, dal momento che il Vangelo non lo dice, né riferisce alcunché circa i trascorsi dei due uomini.
Però chiarisce quale sia il loro futuro: o meglio, non si ha notizia di come se la passi Timeo, ma c’è la certezza che ad un certo punto Bartimeo guarisce, gettando via, insieme al proprio mantello, tutta la propria vita precedente. Traducendo i nomi simbolici in italiano corrente, si può affermare che mentre Timeo – “io ho paura” cessa di esistere, almeno nella percezione del lettore, non appena il suo nome viene letto, suo figlio Bartimeo – “figlio di io ho paura”, riesce ad esercitare la professione di cieco mendicante per una riga e mezza soltanto, quindi incontra Gesù e guarisce completamente.
Cosa significa essere figli della propria paura? Nel linguaggio del Vangelo, il “figlio” è colui che rinasce in sé stesso, che riesce cioè a superare completamente un proprio limite o una propria debolezza, trasformandosi in un individuo completamente nuovo, libero dai limiti che affliggevano la versione precedente di sé. Gesù definisce sé stesso sia “Figlio di Dio”, sia “Figlio dell’Uomo”, esattamente come un bambino si autodefinirebbe figlio di un padre e di una madre. L’unione dell’uomo con Dio, metafora dell’unione tra lo Spirito e la Materia, è in grado di generare una nuova stirpe di individui, ossia di esseri indivisi in sé stessi, perfettamente integri, e quindi del tutto simili a Lui. Gesù rappresenta a tutti gli effetti il prototipo di una nuova specie umana.
Anche gli individui evolvono, esattamente come le specie viventi, ed ogni cambiamento costituisce una vera e propria rinascita, un miglioramento, una evoluzione rispetto al proprio passato. È proprio di evoluzione che si sta parlando qui: ad un certo punto Timeo cessa di essere, e Bartimeo comincia ad esistere. I due nomi simbolici si trasformano da nomi propri di persona a soprannomi della stessa persona, o forse addirittura ad aggettivi qualificativi, che descrivono due diversi stili di vita del medesimo individuo: Timeo è il nomignolo che diamo al nostro protagonista finché esercita come mendicante, Bartimeo è la persona che Timeo diventa quando finalmente riesce a superare la propria paura, imprimendo una svolta epocale ad una esistenza che sembrava segnata.
Nel momento in cui la paura viene superata, il miracolo si compie: Timeo trova il coraggio di chiamare a gran voce Gesù. È già consapevole, mentre lo fa, che la sua richiesta di riacquistare la vista verrà accontentata, perché in quel medesimo istante, Timeo sta compiendo un balzo evolutivo, diventando l’essere darwinianamente più evoluto di sé stesso, che rinascerà alla vita come Bartimeo.
La figura del figlio della paura, che abbandonando le proprie paure salva innanzitutto sé stesso, e poi l’umanità intera, è un concetto archetipico, largamente utilizzato nella narrativa, nei fumetti, nel cinema:
Lord Vader: Obi-Wan non ti ha mai detto cosa accadde a tuo padre!
Luke Skywalker: Mi ha detto abbastanza: che sei stato tu ad ucciderlo!
Lord Vader: No, io sono tuo padre!
[“L’Impero Colpisce Ancora”, G. Lucas, 1980]
Il testo dell’evangelista Marco, raccontando di Timeo, sta in realtà parlando al lettore, suggerendogli che Timeo è la sua immagine vista allo specchio: è lui, il lettore, l’uomo che ha paura di riconoscere la miseria della propria vita e di cambiarla. Ed è lui che ha la possibilità di trasformarsi in Bartimeo quando decide di non avere più paura, e di “chiamare Gesù” in suo soccorso. Il momento della chiamata coincide con la piena assunzione di responsabilità della propria esistenza, dopo che la guarigione sarà avvenuta:
Ra?s al-Ghul: Hai paura del tuo potere, della tua rabbia, che spinge a compiere gesti grandiosi o terribili.
[Batman Begins, C. Nolan, 2005]
Quante persone malate, anche in senso metaforico, hanno paura della propria guarigione? Quante temono a tal punto la propria malattia da non riuscire a guardarla, a riconoscerla, ad accettarla? Si dice che le malattie, come ogni esperienza traumatica, siano messaggi che l’anima, per troppo tempo inascoltata, ha dovuto inviare, attraverso il corpo, ad una mente perennemente occupata dalle contingenze del quotidiano: cosa cambierebbe nella nostra vita se anche solo per esercizio decidessimo di dare credito a questa idea?
Oggi temiamo a tal punto di ribellarci ad abitudini che non esprimono nulla di noi stessi, che preferiamo in molti casi poterci ammalare, per poter così ottenere la comprensione delle persone che ci stanno intorno: le stesse che, con le loro aspettative, ci inducono a mantenere quelle abitudini. L’incapacità di guarire, spesso nasconde la paura di come la vita potrebbe essere se fossimo sani: dei doveri cui dovremmo adempiere e delle prove che dovremmo sostenere se non avessimo più l’attenuante della malattia.
Bartimeo insegna quale è la via d’uscita: occorre chiamare a gran voce Gesù, ossia seguire con fiducia le indicazioni che l’anima ci invia su come condurre la propria vita, senza temere il giudizio altrui, senza paura delle conseguenze. Bartimeo avrà sicuramente considerato il fatto che guarendo non avrebbe più suscitato pietà nei suoi simili: un sentimento che per lui costituiva una pur minima fonte di reddito; nonostante ciò ha preferito rischiare, sfidando l’ignoto con tutta la fiducia che aveva a disposizione. Non aveva la più pallida idea di che cosa avrebbe fatto una volta guarito.
Lo stesso mi sentivo chiamato a fare io stesso, leggendo la sua storia: desideravo finalmente partire alla ricerca di ciò che realmente volevo, con buona pace delle aspettative altrui. Desideravo imparare a vedere. Ecco la verità di fronte a cui mi trovavo, la verità di cui ci si può soltanto accorgere: Bartimeo ero io.
Forse, lo scopo che San Marco volle raggiungere inserendo l’episodio di Bartimeo nel proprio Vangelo era proprio questo: far comprendere ai lettori di ogni tempo, che il più forte impedimento al cambiamento della propria vita è proprio la paura del cambiamento.
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